Abbandonate le sale di rappresentanza, dopo aver risalito una scala semibuia, si giunge nella parte più familiare e più segreta del Palazzo. La sontuosità cede il passo all’intimità, fatta di piccoli spazi. Distaccata, per tenere lontani odori e pericoli, e quasi appartata, è la cucina: grande e luminosa, con le sue tre finestre aperte sul giardino interno e verso la spettacolare campagna matelicese.
La grande cappa del camino, annerita da secoli di fuochi, riempie ancora questa stanza e sovrasta la lunga serie di fornelli a carbone, i piedistalli per gli spiedi e le catene per i caldai. In fondo alla stanza è ancora conservato il grande acquaio di pietra bianca e sopra di esso le mensole per le pentole e le aste per lo scolapiatti. Lungo le pareti della stanza erano state ricavate capienti credenze a muro, fermate da ante di legno, su cui Giovanni Piersanti (fratello del monsignore) aveva fatto imprimere a fuoco il segno del suo possesso: il monogramma racchiuso in una mandorla. Nelle lunghe travature del soffitto, ormai inscurite dal fumo, sono ancora infissi chiodi destinati a sorreggere la cacciagione ed i salumi. Una porta finestra (ormai murata) si apriva su un piccolo balcone, sul giardino interno; da qui funi e carrucole facilitavano la risalita delle brocche e delle ceste piene di cibi e bevande.